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Costazza

Camminando, quasi religiosamente, lungo i percorsi progettati dall’architetto iraniano Zaha Hadid per il Museo Messner di Plan de Corones, due sono le cose che immediatamente si possono percepire. In primo luogo l’idea che la Montagna non sia “solamente” un luogo geologico, ma che, anzi, sia un vero e proprio “Genius Loci”, ovvero un topos, un luogo che ha in sé una forza primigenia, per via della sua natura quasi antropologica del rapporto con l’Uomo, cioè di un rapporto che non è solo visivo, dunque estetico, ma anche e soprattutto fisico: quasi un corpo a corpo. E così è anche per il museo Messner di Plan de Corones, dove la sensazione non è quella di entrare in un’architettura, ma piuttosto all’interno di un organismo proprio perché i suoi corridoi sono piuttosto simili ai percorsi interni di un organismo anziché alle sale squadrate di una costruzione. La seconda percezione che ci dà questo museo è quella che la Montagna può divenire “anche” un oggetto estetico laddove una serie di dipinti, dalla metà dell’Ottocento ad oggi, accompagnano i percorsi architettonici, dipinti dove la Montagna diviene una cartina al tornasole di varie sensazioni, che potremmo definire anche come un “Sentimento”. La Montagna, infatti, ha sempre suscitato e suscita, nell’animo o nella psiche dell’Uomo quello che potremmo definire genericamente appunto come un “Sentimento”, che può avere varie sfaccettature ma che, alla fine, sempre converge in esiti empatici: la montagna affascina, annichilisce e stordisce ad un tempo con la sua immanenza temporale, con la sua imponenza geologica, con la sua bellezza morfologica.
Questa attitudine verso la Montagna, attrattiva e reverenziale ad un tempo, si è andata precisando soprattutto nell’ambito della poetica del Romanticismo, quando le forze naturali, e comunque lo “spirito” della Natura, sono state associate alla liberazione di forti sensazioni, di sentimenti di abbandono quasi mistico, di esaltazione della percettività emotiva, di fronte all’inebriante visione della Montagna. Tutto ciò ha prodotto un impatto psicologico che ha sempre sollecitato il duplice “sentimento” di ammirazione estatica, da una parte, ma anche di timore per l’imponenza fuori scala umana della Montagna stessa. Di qui è anche scattata la sfida ai “limiti” della Natura, ad una Montagna amorevole che accoglie tra i suoi verdi prati e nei boschi dei suoi declivi, ma che sa essere anche inesorabile, e che respinge nell’abisso chi vuole violare le sue vette. Come si può capire, se dunque si parla di un artista che si occupa di queste tematiche, cioè della Montagna in quanto topos, in quanto “contenitore” e al tempo stesso “contenuto” di sensazioni e sentimenti “forti”, non si parla certo di cose banali. Si, perché, oggi che l’arte contemporanea, che già da tempo ha perso l’interesse per la fisicità del mondo che ci circonda, preferendovi le aride acrobazie concettuali, occuparsi di queste cose può appunto sembrare “banale”. Ma non lo è. Non lo è per il semplice motivo che nessuno, oggi, ha la ricetta in tasca per dire “cosa” sia l’Arte. E certamente non si può asserire che l’Arte sia quella delle varie fiere di Basilea e Miami, oppure delle Biennali, come Venezia e Kassel. Lì, semmai, regna il “mercato”, il business: ma possiamo asserire che questi aspetti corrispondano all’idea di arte? Certamente no. Anzi, semmai, potremmo sospettare che siano chiari segni di quella “perdita del centro”, ovvero della perdita generale di “valori”, preconizzata negli anni ’40 del secolo scorso dal filosofo svizzero Hans Sedlmayr: perdita di “valori culturali” sostituiti da “valori economici”. Ecco allora che il voler rimanere ancorati alla Pittura, e inoltre il voler indagare la Montagna e la sua Gente è non solo un’operazione estetica ma anche Culturale, in sé e per sé perché vuole anche recuperare il senso del “Genius Loci” cioè di un luogo che non va solo visto, ma anche percepito e vissuto. Su questa linea di pensiero, dunque, Costazza attua questa sua ricerca riducendo il paesaggio, le case ed anche le persone, ad un’estrema sintesi formale che ne esalta l’intima immanenza. Queste sue opere, infatti, hanno per certi versi un’attitudine a metà tra Metafisica e Realismo Magico, un’attitudine che le fissa come in una dimensione al di fuori del Tempo. Specie nei Paesaggi, le case e la Montagna sembrano fondersi in un’unica sequenza di volumi, quasi senza soluzione di continuità. E lo stesso si può dire per i personaggi di questa sua visione, che sono così essenziali da sembrare, a loro volta, parte integrante del paesaggio montano. E’, questa, una visione che rifiuta ogni descrittivismo, ogni fronzolo, proprio per giungere, grazie ad una perfetta sintesi volumetrica, a tendere a quella “levità” che fa si che queste figure ad un certo punto si possano quasi fondere con la Montagna stessa. A questa visione sintetica, che spesso di fonda anche su di un timbro quasi monocromatico, fa eccezione la serie delle “nature morte”, perlopiù vasi di fiori, nelle quali Costazza recupera una pratica Secessionista, sia per il dato compositivo, sia per l’acceso cromatismo. E questo è il recupero della storia dell’arte, di questi luoghi. Questo artista sud-tirolese, che espone sin dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, mostra in questa esposizione di Canazei, gli esiti ultimi di un percorso che è di esemplare coerenza ad una originaria idea di ricerca sulla Montagna che non ha mai abbandonato e che tende via via sempre più verso una sintesi che non è solo formale ma anche sostanziale.

La Ola e la segosta

Magnères da zacan

Maria Teresa Capaldi, Sergio Rossi

La “ola”, il panciuto paiolo in ghisa dotato di manici e tre piedi, da appoggiare sulla pietra del focolare, ela “segosta”, la robusta catena di ferro che scende dal camino, ci fanno tornare con la memoria ad ambienti famigliari di altri tempi.
Nei primi anni ’70, don Massimiliano Mazzel, nel corso di un ciclo di trasmissioni radiofoniche in lingua ladina, dedicate alle usanze di una volta, così racconta: “Fino a settantanni fa era uso cucinare sui focolari aperti, come quelli che ora si vedono nelle baite di montagna. Il “fregolèr” era di pietra, di solito a lastre,che poggiavano su un piccolo muro, alto tre quarti di metro… Inmezzo alla “napa”, la cappa del camino, penzolava la “segosta” per appendere il paiolo di ferro o di rame”.
La nostra ricerca prende avvio proprio dalle tradizioni di questo ciclo di radioconversazioni, raccolte e ordinate nel “Fondo Mazzel”, che l’Istitut Cultural Ladin “majon de Fascegn” di Vigo di Fassa ci ha messo a disposizione.
Nel corso della lettura, ci imbattiamo così in nomi dimenticati di cibi, quali popacei, menùdoi, scassaìte, grafons, fortaes, grostoi e molti altri, di cui ci incuriososce trovare la ricetta.

Legni da burro

Marche, Decori e stampi

A cura di Tiziano Mellarini
assessore alla cultura, cooperazione sport e protezione civile
Provincia Autonoma di Trento

Pochi oggetti sanno raccontare lo spirito, la storia e l’autenticità delle Alpi come i timbri del burro, veri e propri testimoni di un passato (neanche troppo lontano) in cui l’alpeggio era un tassello fondamentale del delicato meccanismo della vita.
Guardare a quel patrimonio – fatto di stampi di legno, incisioni, forme – con gli occhi dell’oggi ci svela tutta la genuinità di un mondo in cui la montagna e la natura erano protagoniste assolute e punto di riferimento per il sostentamento dell’uomo.
Il merito di questa pubblicazione dunque è duplice. Da una parte, recupera una significativ testimonianza di un’attività artigiana molto radicata nelle nostre comunità, che racconta le origini rurali del nostro Trentino e delle sue genti; dall’altra ci consegna una riflessione in forma fotografica di importanti aspetti identitari e culturali legati alla terra trentina e alla montagna in generale, trasmettendo queste istanze e questi valoriai nostri giovani.
Un ideale passaggio di testimone che avviene guardando queste immagini, ben consapevoli che – seppur la realtà e la società sono molto mutate in questi anni – questi piccoli grandi gioielli diun artigianato di altri tempi sopravvivono a memoria dell’alpeggio e dei suoi valoriche sono ancor’oggi vivi e vitalie si ritrovano quotidianamente nel lavoro dei nostri allevatori e nell’autenticità dei nostri agritur e rifugi.
Valori che attraversano in filigrana la storia del Trentino e ne rappresentano il tessuto fondante, da riscoprire e portare quale valore aggiunto soprattutto in quest’epoca di globalizzazione che fa venir meno i punti di riferimento della nostra tradizione.
Una sincera riconoscenza a Emanuela e Sergio Rossi del Rifugio Fuciade, a Danilo Valentinotti, con un ringraziamento per la passione e la professionalità con cui ha ideato e realizzato questa pubblicazione, certo che possa essere un positivo strumento di valorizzazione dell’anima vera del Trentino.

Othmar Winkler e la Norvegia

mostra di Othmar Winkler

A cura di Sergio Rossi e Massimo Micheli

Con questa esposizione ci s vuole soffermare sull’esperienza norvegese di Othmar Winkler per notare quanto sia stato sempre alla ricerca di sé stesso e delle novità artistiche che, in un’Europa in pieno fermento, stavano sbocciando in quegli anni forse in contrapposizione alle problematiche politiche e sociali che portarono allo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Negli anni scandinavi i suoi lavori si offrono come una radiografia della novità nella consapevolezza del profondo amore per l’arte. Si reca un grande voglia di luce e colore nelle opere di interni di Stube norvegesi, nei suoi porti o nei suoi paesaggi realizzati nel buio nordico. Vi è anche il compromesso pittorico tra i suoi quadri, i disegni e le sue sculture, dove la vita, la natura e la sofferenza vengono interpretate in modo crudo e dissueto portando a spaziare nella storia dell’uomo e della vita. Dalle opere in mostra emerge quella sua personalità critica verso il mondo, verso l’uomo, come un senso di nuova linfa che lo porteranno a riflettere con nuova attenzione e ironia negli anni a seguire.

Sapori e colori

Questo lavoro è nato durante una lunga serata di metà inverno, poi ha visto passare numerose albe, poi alcune stagioni e infine, eccolo qui, come un sole di primo mattino che riscalda i cuori e le tavole delle nostre case. Accanto agli chef e padroni di casa nei loro rispettivi ristoranti Sergio Rossi, Paolo Donei, Michelangelo Croce e Walter Schacher hanno elaborato e realizzato i piatti e i menù proposti: lo chef Massimo Sommariva con Riccardo Schacher, Martino e Manolo Rossi, Antonella Croce, Virgilio e Massimo Donei.

I colori della luce

Ammirando i lavori di Bruno Ronco non si può non notare la grande capacità pittorica e la piena padronanza di una tecnica artistica difficilissima che non permette errori come l’acquarello. Quando si dipinge con l’acquarello infatti ogni gesto, ogni tratto va ben pensato perchè una volta poggiato il pennello sulla carta non c’è possibilità di tornare indietro. Come nella scultura, in cui si procede per sottrazione, nell’acquerello non si può annullare un movimento della mano, non si può cancellare il disegno e rimettere ciò che si è tolto. Le luci e i riflessi vanno ben studiati e il colore- non colore della carta è fondamentale per un maestro della tecnica come Ronco.

Oltre alla bellezza e lo studio dei soggetti, è possibile notare come in questi lavori siano tre gli elementi fondamentali per la realizzazione di un capolavoro tecnico: la luce, il segno e il colore.

La luce di queste opere caratterizza tutti i lavori e li rende subito riconoscibili e riconducibili alla mano dello stesso artista. I riflessi dell’acqua attraversano tutte le sue forme, dalle onde del mare alle iridescenze della neve, diventando così protagonisti indiscussi dei suoi paesaggi. Bruno Ronco sa fare propria la luce del sole di una spiaggia o di un paesaggio alpino, trasformandola in una forza che usa per ridisegnare i contorni di barche e di moli, di case a picco sul mare, dei profili delle baite e delle montagne che le sovrastano.

Altra caratteristica fondamentale delle opere proposte in mostra è il segno con cui l’artista traccia i contorni dei suoi soggetti prediletti. A volte immediato e fresco, a volte pieno, quasi riflessivo, il segno di Bruno Ronco si caratterizza anche in questo caso da una chiara riconoscibilità. Che sia frutto di un gesto veloce o di un’azione più calcolata, il suo segno pittorico è sempre deciso, frutto di una mano sicura, e rappresenta quindi la vera e propria firma dell’artista.

Infine il colore che passa velocemente dalle tonalità più fredde a quelle più calde della tavolozza, mantenendo una sorta di omogenea coerenza cromatica, e in cui è talvolta possibile scorgere una macchia più accesa in grado di raccontare una forma. I colori per Bruno Ronco si fanno narratori di un evento, da un episodio ambientale come una piccola frana, alla semplice pausa dell’uomo che spesso coincide con quel momento della giornata in cui lo stesso artista si ferma a creare.

Da qui nasce il disegno, il suo personalissimo disegno, ovvero la costruzione di volumi e figure descritte da quell’insieme di particolari in cui senza tecnica sarebbe facile perdersi. Fondamentale è un assoluto controllo dell’acqua e delle sue macchie, come la sovrapposizione di queste, e il rispetto quasi assoluto del bianco della carta, strumento di creazione fondamentale per un acquarellista e Ronco ne è la prova.

Non è un caso che la Galleria Tanart di Sergio Rossi abbia scelto di esporre a Canazei un artista come Bruno Ronco. I soggetti delle sue opere infatti la dicono lunga sulla sua vita: Ronco vive e lavora in Liguria, nel Golfo del Tigullio, dal 1951, ma da anni è artisticamente attivo anche in Val di Fassa. Nella sua arte mare e monti si incontrano e dialogano proprio come i sindaci delle due città che hanno deciso di legarsi in uno storico gemellaggio pochi anni fa: Portofino e Canazei. Si tratta di un caso unico, come il lavoro stesso di Bruno Ronco, perchè unisce due eccellenze italiane accumunate dallo stesso soprannome, quello di perle: una delle Dolomiti, l’altra del Tigullio.

La Galleria Tanart di Sergio Rossi nella sua ormai consolidata attività di promozione, si pone l’obiettivo di creare collaborazioni tra persone e realtà turistiche, tra i luoghi e l’arte. Seguendo come sempre la linea dello sviluppo del territorio, il fine ultimo di questo lavoro rimane quindi quello di portare avanti scambi e condivisioni di esperienze in ambito turistico e culturale lasciando all’arte un ruolo di protagonista. La Val di Fassa e in primis Canazei, circondata dalle vette dolomitiche del Sassolungo, del Gruppo del Sella e della Marmolada, Patrimonio dell’Umanità UNESCO, si uniscono così in un forte legame di fratellanza con il Golfo del Tigullio e le sue bellezze, e le opere di Bruno Ronco costituiscono come mai prima una testimonianza tangibile di questa unione.

Flavio Rossi
curatore